8 marzo: donne proletarie unite con la classe operaia
di Laura Sguazzabia*
A metà del suo mandato, Giorgia Meloni fatica sempre di più a nascondere la vera natura del proprio governo. Nonostante le iniziali speranze di alcuni per la presenza di una donna a capo del governo e le campagne dei media per dipingerla come l’icona di un «nuovo» femminismo, è evidente che il modello di donna che ha in mente è quello che si ispira all’ormai celebre dichiarazione «sono una donna, sono una madre, sono cristiana», ossia una donna la cui missione è fare figli, relegata in casa in un ruolo di cura, non sostenuta economicamente o socialmente né nell’ambito lavorativo né se vittima di violenza. L’appello alla partecipazione per l’8M diffusa dal movimento femminista italiano annuncia battaglia a questa visione del governo.
La forza del movimento
La partecipazione massiccia alla manifestazione del 25 novembre scorso (e più in generale alle mobilitazioni delle donne degli ultimi anni) dimostra che oggi c’è una maggiore consapevolezza della condizione di oppressione cui le donne sono soggette, e che è pressante la ricerca di risposte e soluzioni ad una situazione che questo governo sta progressivamente peggiorando. Di fronte all’imponenza della partecipazione, tuttavia, il risultato ottenuto - una maggiore consapevolezza - è da considerarsi cosa modesta: a nostro avviso, ciò si può spiegare con la presenza nel movimento femminista, soprattutto nella sua direzione, di settori borghesi e di soggetti politici riformisti che tentano di circoscrivere la lotta all’interno del quadro delle compatibilità borghesi.
Un tentativo che, non fornendo risposte concrete ed efficaci, dimostra come la soluzione istituzionale sia ormai impraticabile: nessun governo di nessun colore ha migliorato le condizioni delle donne negli ultimi anni, anzi, abbiamo riscontrato un continuo peggioramento. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che c’è una responsabilità importante da parte di quelle forze politiche sedicenti «progressiste» - in realtà borghesi - che hanno governato per anni e che oggi sono protagoniste di accorate prese di posizione contro i provvedimenti del governo in carica. Dobbiamo ricordare che alcune delle manovre più invasive sulla vita delle donne sono ascrivibili a governi che si definiscono “di sinistra”: flessibilità e precariato, allungamento dell’età pensionabile, privatizzazione e tagli a sanità ed istruzione, con il conseguente impoverimento dei servizi.
Finché l’economia e la società saranno organizzate in funzione del profitto di pochi ricchi miliardari che controllano le sorti del mondo, non ci sarà alcuna possibilità di reale miglioramento per le donne e per tutte le categorie oppresse. Finché resteremo nel capitalismo, la stragrande maggioranza delle giovani donne dovrà rassegnarsi a un futuro di abusi, ricatti, violenze, povertà, precarietà, frustrazione.
Per cambiare realmente le cose bisognerebbe cambiare gli attuali rapporti di produzione, demolire cioè le basi materiali dell’oppressione: creare centri antiviolenza pubblici in ogni quartiere; espropriare e nazionalizzare le grandi fabbriche e le banche; investire le risorse così ottenute nell’edilizia popolare, in mense, asili, scuole e lavanderie pubbliche; avviare un piano di lavori pubblici sotto il controllo dello Stato che possa garantire lavori e stipendi dignitosi alle donne ora disoccupate. Solo cioè, l’avvio di un’economia socialista, che ponga al centro il contrasto all’oppressione di genere, potrà davvero garantire un futuro dignitoso alle donne.
Di fronte a questa prospettiva le direzioni riformiste del movimento femminista, nazionale ed internazionale, accusano il marxismo di ridurre la questione femminile ad una mera questione economica, salvo poi riconoscere a quest’ultima un valore determinante quando, nella lotta contro la disuguaglianza, sia pur con declinazioni diverse, utilizzano slogan che non solo segnalano ma addirittura identificano la disuguaglianza economica come la causa della eccezionale vulnerabilità sociale di metà della popolazione. Così dimostrano che non c’è nessun tetto di cristallo che è possibile sfondare, ma un tetto di acciaio impenetrabile che intrappola le donne in una uguaglianza solo formale.
Parola d’ordine: sciopero!
La strada verso il socialismo ci permette di individuare i nostri alleati e i nostri strumenti di lotta. È fuorviante appellarsi, come fanno alcune femministe, al concetto di «sorellanza», perché non sarà mai possibile tra la donna operaia e l’azionista che la sfrutta, tra la stagista sottopagata e un’amministratrice delegata, tra una donna delle pulizie e una ministra al governo. Viceversa, nostro principale alleato nella lotta contro l’oppressione di genere deve essere il movimento operaio, che è fatto di uomini, di donne, di trans, di nere, di immigrati e immigrate, di persone lgbt+: solo se la classe operaia andrà al potere potremo creare le condizioni economiche e sociali che servono per contrastare, coi fatti e non solo con le parole, l’oppressione di genere, così come tutte le altre oppressioni.
Allo stesso modo, rivendichiamo lo sciopero come strumento di lotta proprio del movimento operaio purché correttamente inteso, cioè concepito come blocco della produzione e distribuzione di merci: solo così può rappresentare un momento importante della lotta di classe, il momento in cui operaie e operai – di qualsiasi colore, provenienza, sesso, ecc. – percepiscono chiaramente di essere parte della stessa classe, in contrapposizione a un’altra classe, quella dei padroni. In Italia c’è urgente bisogno di rilanciare un’azione di sciopero degna di questo nome: un’azione unitaria prolungata, che rovesci gli attuali rapporti di forza, a vantaggio dei lavoratori e delle lavoratrici.
L’8 marzo può essere un’importante occasione per unificare il movimento operaio con il movimento che lotta contro le discriminazioni di genere: solo se riusciremo a porre la mobilitazione delle donne sotto la guida della classe operaia, emarginando gli elementi borghesi e riformisti, potremo davvero cambiare le cose a vantaggio della maggioranza delle donne, cioè le donne lavoratrici, disoccupate, tutte quelle che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese.
Rilanciamo, quindi, con convinzione l’appello ai sindacati a proclamare sciopero l’8 marzo, ma con una precisazione: non basta una semplice data sul calendario, gli scioperi vanno organizzati nei luoghi di lavoro… e non solo il sabato.
Una data proletaria
L’8 marzo appartiene alla classe operaia e alle donne proletarie sfruttate dal capitalismo. Le donne lavoratrici di Pietrogrado, che l’8 marzo 1917 hanno iniziato il processo che porterà alla rivoluzione d’Ottobre, si sono mosse alla ricerca di una parità reale, e non formale, nella società, comprendendo che tale uguaglianza non avrebbe potuto che provenire da un altro sistema: il socialismo, una società che, una volta pienamente costruita, ponesse fine al regno delle necessità e, con esso, al regno delle oppressioni.
Questa giornata non fu mai ricorrenza da calendario come invece da tempo si cerca di far credere: negli anni questa data è stata sfigurata dalla borghesia, dalle istituzioni dell’imperialismo e dal riformismo, che l’hanno privata del suo carattere di classe, celebrando una fittizia unione delle donne, nel tentativo di far credere che l’oppressione femminile è cosa del passato, perché oggi le donne sono ministre, segretarie di Stato, giudici, presidenti, offuscando il fatto che le ricchissime donne al vertice del potere sono nemiche di classe delle donne della classe lavoratrice che, nella loro maggioranza, sono povere e sfruttate.
Noi, donne comuniste, vogliamo abbattere il capitalismo nel quale ogni conquista, ogni progresso parziale conquistato dalle donne, dalla classe operaia, dai settori emarginati, è in pericolo fin dal giorno dopo perché come in un gioco di prestigio il capitalismo prima concede e poi toglie. Vogliamo fare una rivoluzione socialista che conquisti un mondo dove essere veramente liberi.
*Responsabile Commissione Donne del Pdac