La Resistenza palestinese sconfigge i piani sionisti su Gaza
di Matteo Bavassano
Pubblichiamo questo articolo, scritto poco più di un mese fa e apparso sul numero di febbraio di Progetto comunista. Riteniamo che l’analisi contenuta nell’articolo, scritto all’indomani della tregua, abbia dimostrato tutta la sua validità; di più, è stata confermata da tutti gli sviluppi successivi in Palestina e Medio Oriente, su cui vogliamo brevemente soffermarci in questa nota introduttiva.
Scrivevamo che il raggiungimento di una tregua era una vittoria per la Resistenza palestinese, ma ovviamente non una vittoria definitiva: una tregua dall’assalto sionista che la Resistenza avrebbe dovuto utilizzare per consolidare le sue posizioni e prepararsi per il proseguo della lotta di liberazione nazionale palestinese, che non può concludersi fino alla distruzione dello Stato sionista.
Dicevamo anche che la tregua era stata accettata obtorto collo da Netanyahu, su pressione dell’imperialismo statunitense. Tutto questo, come dicevamo, ha trovato una conferma negli sviluppi successivi.
Subito dopo l’entrata in vigore della tregua a Gaza è emersa la contropartita data a Israele dagli Stati Uniti: la rimozione delle sanzioni contro i coloni in Cisgiordania, che si è accompagnata all’aumento delle operazioni militari e di polizia sioniste nella regione, che ora è culminata nell’invasione dell’esercito israeliano. Sul fronte di Gaza, nonostante l’esercito sionista non avesse mai smesso di uccidere (sono più di 132 i palestinesi morti a Gaza dall’inizio della tregua), ora Netanyahu ha rotto l’accordo di cessate il fuoco - rifiutandosi di liberare l’ultimo gruppo di prigionieri palestinesi nonostante la liberazione degli ostaggi israeliani fosse avvenuta come previsto - adducendo come scusa la «spettacolarizzazione» dei rilasci da parte di Hamas. È evidente che l’aumento del prestigio della Resistenza a seguito della tregua strappata è stato maggiore di quanto Israele potesse accettare, e questo ha portato alla rottura della tregua (sempre cercando di far cadere su Hamas la colpa).
Da ultimo, a livello internazionale Israele ha ricominciato a colpire Hezbollah in Libano, ma soprattutto ha bombardato depositi di armi ad Homs per evitare che cadessero nelle mani dei ribelli siriani e ha annunciato che continuerà ad occupare il sud della Siria, con buona pace di tutti quelli che sostengono che la caduta di Assad ha rafforzato Israele; al contrario, ha messo in pericolo il fronte nord e ha costretto lo Stato sionista ad aumentare la sua occupazione della Siria (oltre le Alture del Golan, conquistate nel 1967) per cercare normalizzare la situazione, annunciando che occuperà direttamente una zona di 15 km e controllerà fino a 60 km all’interno del territorio siriano.
La ripresa su più fronti dell’offensiva sionista rende ancora più valide le nostre considerazioni finali: non può esservi accordo tra la Resistenza palestinese e le forze collaborazioniste, il principale obiettivo della Resistenza deve essere il proprio rafforzamento in vista della ripresa della lotta, unica cosa che può far desistere i sionisti dai loro piani. Come già il 7 ottobre e poi con la tregua strappata, la Resistenza può vincere, nonostante la forza del nemico, sostenuto dall’imperialismo. Ma la soluzione non arriverà da accordi con il sionismo, ma dalla lotta di liberazione nazionale, che deve essere condotta con una visione classista come lotta delle masse popolari del Medio oriente contro sionismo e imperialismo. M.B.
Chi ha vinto? Un’analisi obiettiva dei fatti
Il 19 gennaio, alle ore 10.15 italiane, è iniziata una tregua a Gaza. Si tratta di una vittoria importante per la Resistenza palestinese, seppure parziale e ottenuta a un caro prezzo. Ma è un passo importante nella lotta per la liberazione di tutta la Palestina dall’occupazione sionista, e l’intero Medio oriente dal giogo dell’imperialismo.
Nonostante la morte e la devastazione che 15 mesi di attacchi continui hanno portato a Gaza, i piani sionisti per la Striscia di Gaza si sono infranti contro la Resistenza palestinese. Se questo anno e mezzo di attacchi ha sostanzialmente distrutto ogni infrastruttura nel nord della Striscia di Gaza, la tregua segna la fine di quello che era conosciuto come «Piano dei generali», secondo cui questa distruzione massiccia serviva a preparare il terreno per nuovi insediamenti sionisti nella regione (così come avviene da anni in Cisgiordania). Ora invece le forze sioniste sono costrette a ritirarsi dalla maggior parte del territorio della Striscia (salvo una fascia nel nord e al confine con l’Egitto a sud), non potendo quindi proteggere la fondazione di nuove colonie. Di contro, a fronte della liberazione degli ostaggi catturati il 7 ottobre, verrà liberato un numero molto maggiore di detenuti palestinesi dalle carceri israeliane. Per fare solo un esempio, a fronte della liberazione dei primi tre ostaggi da parte delle organizzazioni della Resistenza, sono stati liberati 90 detenuti palestinesi, di cui 69 donne e 21 uomini. A testimonianza di quanto sia feroce l’occupazione sionista, segnaliamo che tra questi detenuti vi erano anche dei minorenni.
Tornando però all’accordo, appare evidente come siano stati i sionisti a dover cedere di più, e non certo perché siano più «buoni» o «democratici» dei «terroristi» di Hamas, come appare nella propaganda sui media occidentali (che non a caso di guardano bene dal citare le altre organizzazioni che compongono la Resistenza), ma perché non potevano più sostenere un’offensiva a tempo indefinito senza rischi per la stabilità dello stesso Stato di Israele. I sionisti hanno accettato la tregua obtorto collo e fino all’ultimo hanno cercato di cambiare la situazione a loro favore continuando i bombardamenti durante i negoziati e pure, dopo la firma dell’accordo, ritardando la fine dei bombardamenti a causa di un «ritardo logistico» nella comunicazione da parte di Hamas dei nomi dei primi tre ostaggi che avrebbero liberato. Tuttavia, la strategia sionista per l’ulteriore occupazione di Gaza è completamente fallita.
Come è stata possibile questa vittoria?
Il fattore determinante nel far fallire i piani di Israele per la Striscia di Gaza è stata l’incapacità dell’esercito sionista di eliminare le milizie della Resistenza palestinese nella Striscia di Gaza. Nonostante l’enorme disparità nelle forze militari, l’esercito sionista non è riuscito a piegare la Resistenza, che, come dimostrano le immagini dei festeggiamenti successivi alla tregua, continua a godere di ampio appoggio tra le masse popolari di Gaza (così come in Cisgiordania).
Ma, se la Resistenza palestinese non perdeva i suoi punti di appoggio, il governo sionista sentiva traballare i suoi: quindici mesi di guerra hanno profondamente scosso il regime sionista, che, pur avendo riportato delle vittorie militari parziali (ad esempio con l’uccisione di dirigenti di due leader di Hamas), ha visto crescere il malcontento al suo interno. Questo malcontento si è espresso nell’opposizione al governo di Netanyahu, in particolare da parte delle famiglie degli ostaggi del 7 ottobre, che è aumentata sempre più con il prolungarsi delle operazioni belliche nella Striscia di Gaza, anche in virtù del fatto che sono via via venute alla luce le responsabilità sioniste nella morte di molti degli ostaggi catturati dalla Resistenza palestinese: alcuni sono stati direttamente uccisi il 7 ottobre dalle truppe dell’Idf per impedire che diventassero ostaggi da scambiare con gli «ostaggi» palestinesi nelle carceri sioniste, altri sono morti in seguito ai bombardamenti, mentre uno dei casi che più hanno suscitato scalpore sono i tre ostaggi uccisi dai soldati dell’Idf a Gaza a metà dicembre 2023, evento che aveva scatenato le proteste dei familiari a Tel Aviv.
Se queste proteste non possono essere interpretate come una risposta dei «proletari» israeliani contro il progetto sionista – come affermano coloro che rifiutano di schierarsi a fianco della Resistenza palestinese in nome di un presunto programma di «unione dei due proletariati» – tuttavia questa opposizione ha avuto la sua importanza nell’indebolire la posizione di Israele. Lo Stato sionista ha uno degli eserciti più potenti del mondo (tra i primi venti) e utilizza sistemi di armi e difese avanzatissime (come lo scudo antimissili), ma non potrebbe sostenersi senza l’aiuto finanziario dei Paesi imperialisti (in primo luogo degli Stati Uniti), e, d’altra parte, il suo è un esercito di leva di circa 600.000 unità (contando le riserve) su una popolazione di 10 milioni di abitanti. Nei combattimenti seguiti al 7 ottobre, secondo le fonti ufficiali israeliani (contestate dalle fonti palestinesi), sono morti 800 tra soldati e ufficiali e più di 5.400 unità sono rimaste ferite. Questi dati erano probabilmente ritoccati al ribasso dalla propaganda sionista, ma danno un senso di quanto fosse complessa la situazione.
Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Maariv, l’effimero cessate il fuoco del 27 novembre 2024 è stato motivato anche dal fatto che l’esercito sionista aveva necessità di rifornire di scorte militari le sue truppe, e che l’aviazione israeliana aveva compiuto talmente tante incursioni da necessitare nuovi aerei e strumenti bellici: non è un caso che Biden (alla vigilia del termine del suo mandato presidenziale) abbia siglato un nuovo accordo per fornire ulteriori 8 miliardi di armi a Israele.
A tutto ciò si deve aggiungere l’impatto generale di questa guerra sulla società israeliana: operazioni contro i palestinesi e i loro alleati non sono delle eccezioni per le forze armate sioniste, ma la popolazione israeliana sta lasciando in massa lo Stato sionista, con una diminuzione degli abitanti che non si verificava dagli anni Ottanta. Altro dato, forse ancora più importante per il regime sionista, è che gli investimenti di capitale hanno visto un rallentamento: per la prima volta da decenni, Israele non risulta tra le prime 10 mete per gli investimenti globali.
Tutti questi dati indicano quanto il sostegno dell’imperialismo si dimostri centrale per mantenere l’occupazione sionista della Palestina. Lo Stato di Israele è infatti la principale enclave armata dell’imperialismo in Medio oriente, che gli Stati Uniti utilizzano per meglio controllare la zona. Ma nemmeno Israele può imporre la propria volontà all’imperialismo, e infatti aspetta sempre di averne l’appoggio per mettere in atto i suoi piani più importanti. Oggi questo appoggio è venuto meno, e questo è una conseguenza diretta dell’instabilità portata nella regione dal processo rivoluzionario siriano.
La caduta di Assad ha indebolito la posizione di Israele
L’espansionismo di Israele non si è mai limitato alla Palestina: l’obiettivo dei sionisti è sempre stato quello della creazione della «Grande Israele» occupando parti di tutti gli Stati del Medio oriente, smembrandoli e ridisegnandone la mappa politica con il sostegno dell’imperialismo. A circa un anno dall’inizio della guerra a Gaza, nell’ottobre 2024, dopo numerosi raid aerei contro Hezbollah, l’esercito israeliano ha invaso il Libano – senza che Hezbollah avesse messo in atto nessuna azione seria contro le forze di occupazione sioniste che massacravano i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. Dopo circa due mesi di combattimenti (e l’uccisione del capo di Hezbollah), il 27 novembre si è arrivati a una tregua, che Israele si guarda bene dal rispettare, mentre prepara il campo per cominciare a insediare coloni nel sud del Libano.
Pochi giorni dopo la fine delle ostilità aperte con Hezbollah – che rischiavano di essere molto pericolose per i progetti sionisti, in quanto già una volta le milizie di Hezbollah avevano sconfitto militarmente l’esercito israeliano, cacciandolo dal Libano – un nuovo fronte si è aperto a nord di Israele, quello siriano. Sebbene venisse annoverata nel fantomatico «Asse della Resistenza», la Siria di Bashar al-Assad era una garanzia per Israele: gli Assad (prima il padre, poi il figlio) non avevano mai fatto nulla per riprendersi le Alture del Golan, territorio siriano occupato da Israele durante la Guerra dei sei giorni del 1967, e, fin dal 1974, avevano nei fatti normalizzato le relazioni con Israele. La Siria, infatti, pur non avendo mai riconosciuto formalmente lo Stato di Israele e il suo diritto all’esistenza, sotto la dittatura di Hafiz al-Assad stipulò un «Accordo sul disimpegno» con Israele, un armistizio che non fu mai violato dalla Siria. Anche dopo il 7 ottobre, Israele non ha condotto operazioni contro Damasco, se non per colpire capi militari iraniani nei consolati e nelle ambasciate in Siria.
Eppure, subito dopo la caduta del dittatore siriano, che alcuni considerano «antimperialista», Israele non solo ha provveduto a cominciare un’espansione nei territori siriani prossimi al Golan, ma ha bombardato i depositi di armi di Assad, segno che evidentemente li considerava potenzialmente più pericolosi nelle mani dei ribelli insorti che nelle mani del dittatore.
Tuttavia, gli scenari imprevedibili della situazione in Siria non preoccupavano solo i sionisti, ma anche l’imperialismo statunitense, la cui priorità è diventata normalizzare la situazione in Medio oriente. Anche Trump, che durante la sua campagna elettorale sembrava pronto a lasciare mano libera a Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania, ha dovuto schierarsi col fronte di chi voleva una tregua, cosa che ha imposto ai sionisti di venire a patti con la Resistenza: è stato un uomo di Trump, Steve Witkoff, a far sì che Netanyahu accettasse l’accordo. Ovviamente Israele non ha accettato di buon grado l’accordo e sta già facendo di tutto per limitarne la portata; tuttavia, non riaprirà le ostilità fino a quando non avrà il benestare del suo padrone statunitense. Ci sono però aspetti non secondari degli accordi che vanno chiariti.
Il ruolo dell’Anp e il futuro della Striscia di Gaza
L’accordo per la tregua, negoziato con la garanzia di Stati Uniti, Egitto e Qatar, prevede che l’Anp assuma il controllo della Striscia di Gaza. L’Anp non ha più un ruolo amministrativo nella Striscia da quando Hamas vinse le elezioni nel 2006 strappando la vittoria ad al-Fatah, che non di meno continua ad amministrare la Cisgiordania.
La cosiddetta Autorità nazionale palestinese è un’istituzione collaborazionista nata all’indomani degli Accordi di Oslo come «primo passo» per la costruzione (che non c’è mai stata) del «secondo Stato», quello palestinese, che doveva sorgere a fianco al «primo Stato», quello sionista. Pur ammettendo che tale risultato fosse auspicabile, non era tuttavia difficile immaginare che ciò non sarebbe mai avvenuto e che, anzi, l’Anp sarebbe stato un ulteriore strumento di oppressione del popolo palestinese. Già nel 1988, nel suo libro La storia nascosta del sionismo, l’attivista ebreo antisionista statunitense Ralph Schoenman scriveva: «Una conferenza internazionale progettata per legittimare gli interessi di sicurezza dello Stato segregazionista di Israele in cambio di un “bantustan” palestinese [cioè un’area controllata amministrativamente dai palestinesi, ndr] non potrebbe mai essere realizzabile, a meno che la dirigenza palestinese non garantisse una sfumatura protettiva a questo piano. Un tale risultato non farebbe altro che dare all’Olp il poco invidiabile compito di sorvegliare le masse popolari palestinesi e di convertire l’autodeterminazione in una triste replica dei regimi venduti che affliggono le masse arabe – dalla Giordania alla Siria e dall’Egitto al Golfo» (1).
Il ruolo dell’Anp è sempre stato esattamente quello di contenere la lotta del popolo palestinese per cercare di contrattare alcuni privilegi – per la sua burocrazia e per quanti fanno affari con gli occupanti sionisti – con Israele e l’imperialismo, accreditandosi come un socio affidabile. La completa bancarotta dell’Anp si è espressa più che mai quando – oltre al classico ruolo di polizia in Cisgiordania e di aiuto alle operazioni dell’Idf – ha preso in carico in prima persona la repressione della Resistenza palestinese nel campo profughi di Jenin, da sempre uno dei centri della Resistenza in Cisgiordania. Dopo mesi di assedio da parte dell’esercito israeliano, che non è riuscito a piegarne la Resistenza, il campo di Jenin è stato assediato dalle forze di sicurezza dell’Anp, di cui la popolazione sta denunciando gli abusi, dall’interruzione delle forniture di acqua ed elettricità fino agli omicidi di palestinesi, come la giornalista Shatha al-Sabbagh, uccisa il 29 dicembre.
Negli accordi si dispone che l’Anp torni a controllare anche la Striscia di Gaza, ma il suo comportamento in questi mesi ha dimostrato una volta di più che non la amministrerà nell’interesse dei palestinesi, ma degli occupanti sionisti. Sulla vittoria della Resistenza palestinese si staglia quindi già un’ombra sinistra, e le prospettive programmatiche saranno quanto mai importanti nel proseguo della lotta per la liberazione della Palestina.
Lezioni di una vittoria importante, ma che è solo il primo passo
La sconfitta strategica del sionismo a Gaza corrisponde a una vittoria parziale della Resistenza palestinese. Questa vittoria deve essere consolidata per rilanciare la lotta per la liberazione di tutta la Palestina – dal fiume al mare – dal sionismo.
L’aspetto più importante, che può sembrare scontato (ma è bene ribadirlo), è la vittoria in sé: dimostra che le masse popolari possono sconfiggere un nemico ben più forte e armato fino ai denti (è quello che, da sempre, fanno le rivoluzioni). Questo esempio è quanto di più importante per il futuro della Resistenza palestinese.
Il secondo aspetto importante che vogliamo sottolineare è la dimensione internazionale della lotta per la liberazione nazionale palestinese, e questo è tanto più vero in quanto il sionismo è il principale punto di appoggio dell’imperialismo in Medio oriente. Un vecchio motto del Fronte popolare per la liberazione della Palestina recitava: «La strada per Gerusalemme inizia al Cairo, ad Amman e a Damasco». Ebbene, è stata proprio la vittoria (ancora tutta da consolidare) delle masse contro la Siria di Assad a consentire di indebolire il sostegno dell’imperialismo statunitense ai progetti espansionistici del sionismo.
Naturalmente, la Resistenza deve avere chiaro che questa è lungi dall’essere una vittoria definitiva, e saranno necessarie molte altre lotte per riuscire a distruggere lo Stato di Israele e a cacciare il sionismo dalla Palestina e l’imperialismo dal Medio oriente. Deve essere cosciente che questa tregua è temporanea, che deve utilizzare questo tempo per riorganizzarsi militarmente, per preparare politicamente le prossime lotte e continuare a indebolire il sostegno allo Stato di Israele. Perché, non c’è da dubitarne, appena la situazione lo consentirà Israele riprenderà a colpire i palestinesi, con il sostegno dell’imperialismo.
Il movimento internazionale di solidarietà con la Resistenza palestinese ha il compito di tenere alta la pressione sullo Stato sionista, anche attraverso campagne come quelle di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) e assicurare quindi che Israele non possa rafforzarsi tanto in fretta da rompere la tregua. La Resistenza palestinese invece deve preparare – politicamente e militarmente – le prossime lotte, che, come ha dimostrato anche la vicenda siriana, non possono prescindere dalla mobilitazione rivoluzionaria di tutte le masse popolari della regione per la distruzione dello Stato di Israele, per la cacciata dell’imperialismo e il rovesciamento dei Regimi arabi complici di sionisti e imperialisti, nella prospettiva della creazione di una Palestina laica e democratica nel quadro di una Federazione di Stati socialisti del Medio oriente.
Come rivoluzionari, non dubitiamo che questa sia l’unica vera soluzione per liberare la Palestina dall’occupazione sionista, e ci batteremo per la costruzione – anche in Palestina – di un partito rivoluzionario internazionale che possa unire le lotte delle masse popolari dei vari Paesi del Medio oriente in un’unica lotta contro l’imperialismo e la sua enclave sionista.
Note
1) R. Schoenman, La storia nascosta del sionismo, 1988, Associazione Rjazanov, 2024, p. 183.