Su l’inflazione e giù i salari…
mentre i padroni continuano ad arricchirsi!
Intervista a cura di Diego Bossi
Inflazione alle stelle e aumenti salariali al lumicino: così i lavoratori hanno lasciato sul terreno il loro potere d’acquisto, mentre industriali e banchieri continuano incessantemente ad arricchirsi. Ne parliamo con Alberto Madoglio del Comitato centrale del Pdac.
Alberto, puoi spiegarci quali effetti ha un’inflazione che si aggira intorno al 10% sulla vita dei lavoratori e perché, mentre il costo della vita continua a crescere, i salari rimangono pressoché congelati?
Gli effetti sono pesanti ed evidenti. Con questo tasso di inflazione, a un livello che non si vedeva da circa quarant’anni, è come se i salari dei lavoratori subissero un taglio del 10%. Quello che prima costava 100 euro ora costa 110, quindi la capacità di spesa viene fortemente compressa. Ma, trattandosi di una media, questa non dice tutta la verità. Per quanto riguarda il carrello della spesa, cioè gli acquisti di generi alimentari o di prima necessità, il tasso di inflazione è addirittura superiore. Tenuto conto che i lavoratori spendono gran parte del loro salario per questo genere di acquisti, il maggior esborso che devono sostenere è anche più alto di uno o due punti percentuali in più.
A fronte di questa situazione non assistiamo a una crescita dei salari che possa compensare questa perdita del potere d’acquisto. Ciò è dovuto all’assenza di meccanismi di adeguamento automatico come nel passato quando c’era la scala mobile (anche se va ricordato che il recupero era parziale). Bisogna poi aggiungere che i rinnovi contrattuali sono fermi da anni, hanno una durata pluriennale che penalizza i lavoratori quando c’è un aumento duraturo dei prezzi e, quando finalmente vengono rinnovati, gli aumenti sono del tutto insufficienti. Parlo anche per esperienza personale: la mia categoria ha rinnovato lo scorso settembre il contratto con aumenti di circa il 6% in un triennio. Peccato che solo per i primi otto mesi del 2022 l’inflazione, che era all’8%, si fosse già mangiata tutto l’aumento concordato.
I dati Ocse raccontano di un’Italia «maglia nera» d’Europa in potere d’acquisto dei salari dal 1990 a oggi. Molti lavoratori pensano che il problema sia solo italiano e citano come esempio Stati imperialisti che sarebbero «più virtuosi» e «meglio amministrati»: è veramente così? Si tratta solo di buon senso e buon governo?
Ovviamente non è così. È ormai da mezzo secolo che i proletari in ogni angolo del globo vedono i loro salari calare o non aumentare in maniera adeguata. È il caso ad esempio di Francia e Germania, dove i salari sono aumentati del 30% dal 1990, quindi di un misero 1% annuo, non certo un dato da festeggiare con bottiglie di spumante. Per l’Italia credo vadano tenuti in considerazione due fattori. Dalla crisi del 1992-93 il capitalismo da noi non si è mai del tutto ripreso. In questi decenni, quando si era in una fase di ripresa dell’economia, l’Italia cresceva meno dei suoi concorrenti… e nelle fasi di crisi pativa maggiormente. Ciò ha spinto i padroni a cercare di limitare il calo dei profitti, sia diminuendo la quota dei salari sia distruggendo lo stato sociale, con tagli a pensioni, sanità, scuola, trasporti e così via.
Ciò che ha consentito che tutto questo avvenisse sono state le sconfitte che il movimento operaio ha subito nella sua lotta con i padroni a partire dalla fine degli anni Ottanta. Questo credo sia stato il fattore determinante: è la lotta di classe che decide chi vince e chi perde tra capitale e lavoro, non solo se parliamo della prospettiva rivoluzionaria, ma anche se ci limitiamo a lotte che non immediatamente mettono in discussione le sorti del sistema.
Sono molti i partiti politici ad additare il liberismo sfrenato come causa di ogni male e a invocare modelli con maggior intervento degli Stati in termini di welfare e regolamentazioni del mercato. Qual è la posizione di Alternativa comunista in merito a questo?
Sì, hai pienamente ragione. Sono molti, per non dire tutti, che addebitano al liberismo le colpe per le crisi a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. È il tentativo che fanno le classi dominanti per cercare di convincerci che tutto sommato il capitalismo non sia così male, e che il problema sia avere deviato da un percorso virtuoso. Per quando riguarda le organizzazioni tradizionali e maggioritarie del movimento operaio, il loro sostegno a questa teoria è il frutto di quello che come Lit-Quarta Internazionale chiamiamo «alluvione opportunista», l’aver cioè abbandonato ogni idea di cambiamento del sistema economico capitalista.
Quello che chiamano liberismo è stata la risposta che la borghesia a livello internazionale ha trovato per superare la crisi di redditività del capitale esplosa nella prima metà degli anni Settanta del XX secolo. Riduzione dei salari, smantellamento dello stato sociale per mezzo di privatizzazioni selvagge e politiche di austerità, ecc. sono serviti per mantenere, o cercare di mantenere, un alto livello nei profitti. Lo Stato è stato lo strumento che la borghesia ha usato per lanciare questo brutale attacco. Pensare che ora possa trasformarsi in uno strumento nelle mani della classe lavoratrice per consentirle di riconquistare il maltolto è una pia illusione o, peggio, un vero e proprio crimine che condanna i proletari ad altre sconfitte.
Un’ultima domanda, Alberto. Oggi molti lavoratori, seppur disposti alla lotta per migliorare le loro condizioni di vita e quelle delle generazioni future, si trovano a scontrarsi, da una parte, con le direzioni dei sindacati confederali (Cgil in testa) che impongono loro la concertazione al ribasso, dall’altra, con le logiche settarie e autoreferenziali delle direzioni del sindacalismo conflittuale. Cosa propone Alternativa comunista a questi lavoratori in lotta?
È corretto quello che dici. In questi anni la risposta che la classe operaia qui da noi ha dato agli attacchi sferrati dalla borghesia e dal suo Stato è stata molto debole. Ma questo non per una particolare caratteristica della classe operaia in Italia, per qualche «eccezionalità» antropologica per cui i lavoratori sarebbero refrattari alla mobilitazione.
È vero il contrario: per decenni la classe operaia nel Paese ha dato dimostrazione di avere volontà e capacita di lottare con pochi eguali a livello internazionale. Se col tempo tutto ciò è venuto meno è stato causato dalla nefasta azione delle maggiori organizzazioni sindacali - Cgil e Fiom anzitutto, come ricordavi - che hanno sparso sfiducia e rassegnazione a piene mani tra i lavoratori.
E quando ciò non bastava, si sono scontrati frontalmente con loro. Il caso di Alitalia è lì a dimostrarcelo, ma è solo l’ultimo, per ora, di una serie infinita.
Così come responsabilità vanno segnalate in quello che correttamente chiamavi il settario del sindacalismo di base, più interessato alla autoconservazione invece che lottare per costruire un’alternativa chiara e conflittuale al sindacalismo confederale.
Cosa possono fare i rivoluzionari, cosa può fare il nostro partito in questo quadro? Credo che il primo passo sia quello di rivolgersi a tutti quei settori proletari di avanguardia che, al di là della loro appartenenza sindacale - o anche a quelli che sono fuori da ogni sindacato - ritengono non più sopportabile la loro situazione, e non sono disposti ad accettarla come qualcosa di ineluttabile.
Dobbiamo spiegare loro pazientemente che solo lottando per un’alternativa di classe, rivoluzionaria, potranno vedere soddisfatte le loro rivendicazioni, e che solo con la costruzione di un nuovo Stato, di una nuova società, quella comunista, si avrà la garanzia di non vedersi prima o poi rimangiate le conquiste faticosamente ottenute.