Partito di Alternativa Comunista

La questione dello Stato in Marx

La questione dello Stato in Marx

 

A 140 anni dalla morte del grande rivoluzionario

 

 

di Francesco Ricci

 

 

 

«Tutta questa merda sarà distribuita in sei libri: 1) del capitale 2) proprietà fondiaria 3) lavoro salariato 4) Stato 5) commercio internazionale 6) commercio mondiale», così scriveva Marx a Engels il 2 aprile 1858.(1) Tra una lamentela e l'altra per la grave situazione economica familiare e per i favi che gli impedivano di stare seduto a scrivere (curati con la medicina dell'epoca, cioè pomate a base di arsenico...), in questo modo Marx presentava all'amico il piano della sua opera magna in gestazione, Il Capitale. Critica dell'economia politica. Il primo libro di quest'opera uscirà solo dieci anni dopo, nel 1867, ma nel frattempo la sua struttura verrà cambiando e il previsto quarto libro sullo Stato non verrà mai scritto (2). Ciò ha negli anni favorito la leggenda della «inesistenza» di una dottrina marxista dello Stato e di un Marx ridotto a «economista». Eppure, come affermò Engels nel discorso al funerale del compagno di tante battaglie, «lo scienziato non era neppure la metà di Marx. [...] Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell'altro all'abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato [...] questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento» (3).
Occultare il Marx militante è un compito che ha visto e vede da un secolo e mezzo impegnati i riformisti, cioè coloro che si guadagnano da vivere illudendo i lavoratori e i giovani che sia possibile un capitalismo senza i mali del capitalismo. Per facilitare questa opera di «agenti della borghesia nel movimento operaio», come li bollava Lenin, i riformisti hanno da sempre dovuto nascondere o deformare la teoria marxiana dello Stato, che, seppure non confluita in un'opera a sé, costituisce l'essenza di gran parte dei testi di Marx.

 

La concezione materialistica della storia e le sue deformazioni

Non è possibile comprendere la concezione marxiana dello Stato senza inquadrarla nella concezione materialistica della storia. Non possiamo certo esaminare qui una questione su cui si sono riempite intere biblioteche ma proviamo a riassumere in qualche riga almeno quanto ci serve.
Il materialismo di Marx supera tutte le concezioni precedenti: non è la sostituzione dell'Idea (degli idealisti) con la Materia; non è il capovolgimento dell'idealismo in materialismo. Marx dà una risposta nuova alla domanda fondamentale che tutta la filosofia si pone fin dalle origini: quale è il rapporto tra Idea (o Coscienza) e Materia? La sua risposta è nuova perché supera sia la teoria secondo cui la coscienza produce la realtà (idealismo), sia la teoria opposta, che vede la coscienza come «riflesso» della realtà materiale, posizione che nelle Tesi su Feuerbach Marx definisce «vecchio materialismo». In altre parole, Marx pone fine tanto a ogni forma di idealismo come a ogni realismo ingenuo.
Nei 140 anni che ci separano dalla sua morte, le due opposte posizioni che Marx ha superato sono state sposate ora da uno ora da un altro dei suoi presunti seguaci; al contempo queste due speculari caricature del marxismo sono state usate da legioni di anti-marxisti per polemizzare con più facilità col comunismo.
Non si è trattato e non si tratta, evidentemente, di un confronto per filosofi. La riduzione del marxismo a un materialismo meccanicista è stata la giustificazione teorica per il riformismo: se la realtà è retta da «leggi» simili a quelle della fisica newtoniana, che l'uomo può solo conoscere per adeguarvisi, e il socialismo è un lontano orizzonte «inevitabile», perde significato l'azione soggettiva qui e ora, la politica rivoluzionaria (la «praxis») e in definitiva lo stesso partito d'avanguardia rivoluzionario.
Questa, delle due opposte falsificazioni del marxismo, fu quella che fornì copertura ideologica all'opportunismo della Seconda Internazionale nella sua fase burocratica, così come servì da mantello per la degenerazione burocratica, stalinista, della Terza Internazionale dopo Lenin. Fu la deformazione dominante nelle organizzazioni del movimento operaio perlomeno dalla morte di Engels fino a cinquant'anni fa, contrastata per lo più soltanto da intellettuali (del cosiddetto «marxismo occidentale», che tuttavia spesso cadevano in posizioni idealistiche). A partire dalle sconfitte delle lotte operaie e studentesche degli anni Settanta, tradite dalle burocrazie staliniste e riformiste, questo meccanicismo lascerà il posto ai primi germogli di un'altra malapianta: quella postmodernista.
Non è un caso che il libro fondatore del postmodernismo in campo filosofico, quel «La condizione postmoderna» di Lyotard(4), venga pubblicato nel 1979, con l'inizio del riflusso delle lotte degli anni Sessanta e Settanta.
Qui emerge, e si svilupperà poi in altri autori (che ci ripromettiamo di analizzare in altri articoli), il polo opposto a quello determinista: con l'eliminazione della «contraddizione principale» (quella capitale-lavoro), con la «intersezionalità» che non distingue sfruttamento del lavoro salariato da oppressioni, con la ricerca di «nuovi soggetti» (dando per morta la classe operaia), negando il partito e il fine a cui i comunisti vogliono portare la lotta di classe.

 

Lo Stato come strumento di oppressione di classe

Marx, usando una metafora architettonica (in seguito abusata), differenzia tra una struttura (Struktur) e una sovrastruttura (Uberbau). Secondo la vulgata determinista, la prima corrisponderebbe alla «economia» che, con leggi meccaniche, determinerebbe in modo ferreo la seconda, dove si collocano la politica (Stato, regimi, governi) e le ideologie.
Nella realtà della concezione di Marx ed Engels, invece, la struttura (o «base reale») è quella sfera socio-economica in cui gli uomini interagiscono per produrre, scambiare e per riprodurre la vita, nel quadro della lotta di classe. La struttura (così intesa) condiziona (termine che Marx usa come sinonimo di determina) le sovrastrutture politiche e ideologiche, e dunque lo Stato.
In altre parole, il motore della storia è per Marx ed Engels la lotta di classe; e la rivoluzione, cioè il punto più acuto della lotta, è per questo da loro definita come la «locomotiva» della storia. La storia non fa nulla: è l'uomo (sottratto a ogni trascendenza) che fa la storia, attraverso la lotta di classe, seppure in circostanze che non ha scelto e che gli derivano dalla lotta di classe delle generazioni precedenti.
Da Hegel, Marx riprende la distinzione tra «società civile» e Stato. Ma se per Hegel lo Stato (come «evoluzione generale dello spirito») determina la società civile, per Marx è all'opposto la società civile (la sfera che comprende le relazioni materiali, di produzione e tutto il complesso della vita commerciale e industriale, in cui sono impegnate le classi in lotta) che determina (condiziona) lo Stato.
Il concetto è delineato in forma nitida già nell'Ideologia tedesca: «La vita materiale degli individui [...], il loro modo di produzione e la forma di relazioni che si condizionano a vicenda sono la base reale dello Stato. [...] Questi rapporti reali non sono affatto creati dallo Stato: essi sono piuttosto il potere che crea quello».(5)
Lo Stato non è sempre esistito. Nel suo libro sull'Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Engels spiega che nella società primitiva il lavoro era così improduttivo che non generava un sovrappiù; a questo stadio non esisteva proprietà privata dei mezzi di produzione e per questo non era necessario uno strumento di costrizione (lo Stato). Solo quando si produce una «eccedenza», una divisione del lavoro e compare la divisione in classi della società, sorge la necessità dello Stato. Quando, con la rivoluzione industriale e le rivoluzioni borghesi del secolo XVII e XVIII, il sistema feudale lascia il posto al capitalismo (che per secoli si è sviluppato dentro alla società feudale) e alla nascita delle due classi moderne, nasce anche lo Stato moderno, lo Stato borghese che, occultando la sua natura di classe, si presenta come lo Stato di tutti. Ma lo Stato, insiste Engels, sono «distaccamenti di uomini armati» e una burocrazia che hanno come scopo garantire la proprietà con le armi e col dominio ideologico. Senza la forza coercitiva e la egemonia culturale, la borghesia, classe minoritaria della società, non potrebbe mantenere il suo dominio.
Ecco la mirabile sintesi di Engels: «Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è per regola lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo dello Stato, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. [...] lo Stato moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del Capitale» (6).

 

Le esperienze storiche, fucina del marxismo

Sarebbe sbagliato pensare che le conclusioni sullo Stato a cui giungono i due fondatori del marxismo siano il prodotto di una illuminazione nata in qualche biblioteca. Lo studio e l'attività politica furono sempre due vasi comunicanti per Marx ed Engels: la teoria al contempo prodotto e alimento dell'esperienza politica.
È nel vivo delle esperienze rivoluzionarie dei loro tempi, in particolare quella del 1848 (quando in Francia nasce a febbraio per la prima volta una disastrosa esperienza di governo di «collaborazione di classe» e poi la tardiva contrapposizione del giugno tra le due classi nemiche) e quella del 1871 (quando, sempre in Francia, nasce il primo «governo degli operai per gli operai»), è nel vivo di queste esperienze, dicevamo, che Marx ed Engels elaborano e sottopongono alla prova della storia il programma rivoluzionario. Programma che si può condensare in tre parole: dittatura del proletariato.

 

La dittatura che pone fine a tutte le dittature

Il concetto di dittatura del proletariato Marx lo eredita dall'Anno II (1793) cioè dalla punta più avanzata della rivoluzione francese, dalla «dittatura rivoluzionaria» teorizzata dai testi di Marat e sviluppata, in termini di classe, dalla Congiura degli Eguali (1795-1796) di Babeuf. Per Babeuf non si tratta di un cambio di governo ma di un nuovo Stato, transitorio, premessa della «società degli eguali» basata sull'abolizione della proprietà privata. Questo programma, attraverso il libro di Buonarroti sulla Congiura (7) influenza il movimento operaio degli anni Trenta dell'Ottocento e in particolare arriva al grande rivoluzionario francese Blanqui. Ma se per Blanqui si tratta della dittatura di un gruppo di illuminati, che si sostituisce alla classe, per Marx è invece la dittatura del proletariato, diretto dal partito d'avanguardia (8).
È questo obiettivo che campeggia nel Manifesto scritto da Marx nelle prime settimane del 1848 per il suo partito, la Lega dei Comunisti. Nel Manifesto non appare ancora l'espressione ma il concetto di dittatura è inequivocabile: «lo Stato, dunque il proletariato organizzato come classe dominante» (9).
È una dittatura di tipo particolare, perché è esercitata dalla stragrande maggioranza degli attuali oppressi per schiacciare la resistenza al cambiamento di una minoranza, gli oppressori; ed è una dittatura che contiene in sé i germi della propria estinzione, una volta assolto questo compito transitorio.
Dunque partito politico d'avanguardia per conquistare la maggioranza politicamente attiva della classe, a partire dai suoi circoli più avanzati e ristretti, nella lotta per le rivendicazioni parziali, intesa come lotta che ha per scopo ultimo non le riforme guadagnate nello Stato borghese (riformismo) ma far avanzare la coscienza operaia nella comprensione che non ci sono riforme permanenti senza la conquista per via rivoluzionaria del potere, la distruzione dello Stato borghese, la sua sostituzione con uno Stato operaio (dominio o dittatura del proletariato) e l'estinzione di questa ultima forma di Stato insieme all'abolizione su scala internazionale della società divisa in classi.
Ecco il programma del marxismo, il cui occultamento rende il definirsi «comunisti» di alcuni una parola vuota. Perché, come ebbe a ripetere tante volte Lenin, non può dirsi comunista chi rimuova dal programma l'obiettivo della dittatura del proletariato.

 

Il riformismo odierno e la sua filosofia postmodernista

Se il riformismo classico trovava nella deformazione determinista del marxismo la propria copertura ideologica, il riformismo attuale ha trovato in quella forma particolare di idealismo che è il postmodernismo la propria giustificazione.
Se per i deterministi la storia si risolve in una «equazione di primo grado», come commentava ironicamente Engels, per gli «indeterministi» la storia è un marasma incomprensibile, un caos senza senso così come appariva agli occhi ingenui di Fabrizio del Dongo la battaglia di Waterloo (10).
Se il riformismo classico, radicato nella classe operaia, seminava illusioni sulla riformabilità del capitalismo potendo garantire qualche briciola in una fase di relativa crescita del sistema, il riformismo attuale, privo di radicamento operaio, con le crisi del capitalismo che si susseguono sempre più dirompenti, si fa garante piuttosto della gestione di politiche anti-operaie addolcite da parole sparse come zucchero a velo su una torta.
I governi diretti dai (o con la partecipazione dei) neo-riformisti, pensiamo a Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, Rifondazione in Italia coi governi Prodi, ecc., hanno bisogno di una giustificazione teorica. L’hanno incontrata nelle teorizzazioni postmoderniste che, negando l'esistenza stessa di una realtà oggettiva (per loro, sulle orme di Nietzsche, «non esistono fatti ma solo interpretazioni»), rimuovono ogni possibilità di cambiamento rivoluzionario della realtà. Di qui il fiorire negli ultimi decenni di quelle teorie accademiche (come la teoria queer o le teorie prevalenti nel femminismo piccolo-borghese) per le quali la materia è un prodotto del linguaggio (sulla scia del filosofo Derrida, «non esiste realtà fuori dal testo»), il linguaggio «costruisce» la realtà e dunque si tratta semplicemente di «decostruire» il linguaggio inventando una neo-lingua fatta di giochi semantici, parole impronunciabili (fosse pure per citarle stigmatizzandole), lettere rovesciate, ecc.: qualcosa che certo non serve a facilitare la comunicazione al di là di ristretti circoli universitari, in un Paese (per prendere il caso dell'Italia) che ha il 28% di analfabeti funzionali.
La presunta «centralità del linguaggio» si sostituisce alla centralità della questione del potere, ridotta a vecchiume bolscevico. Ecco che si tratta così di «cambiare il mondo senza prendere il potere», come recita il titolo del libro di uno di questi teorici, Holloway (11). Nel frattempo non rifiutando, s'intende, qualche strapuntino nei governi borghesi...
Servono a qualcuno certe teorizzazioni irrazionali? Sicuramente fruttano soldi a chi con queste stupidaggini riempie libri interi, ma soprattutto sono preziose per la borghesia che da sempre ha bisogno del riformismo per mantenere il proprio dominio.
Di certo queste teorie non servono alle masse sfruttate e oppresse che hanno bisogno di riappropriarsi del patrimonio marxista in generale e della marxiana teoria dello Stato in particolare.

 

Note

1) Cfr. K. Marx, F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, 1973, vol. XL, p. 329.

2) Per una accurata ricostruzione filologica del lungo lavoro preparatorio del Capitale rimandiamo al saggio di Marcello Musto, "La critica incompiuta del Capitale", in Il Capitale alla prova dei tempi, edizioni Alegre, 2022.

3) Cfr. F. Engels, "Orazione funebre per Karl Marx", pronunciata al cimitero di Highgate il 17 marzo 1883.

4) J.F. Lyotard, La condizione postmoderna (1979), Feltrinelli, 1981.

5) Cfr. K. Marx, F. Engels, L'Ideologia tedesca (1846), Editori Riuniti, 1958, p. 324.

6) Cfr. F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Edizioni Savelli, 1973, cap. IX, p. 214.

7) F. Buonarroti, Cospirazione per l'eguaglianza detta di Babeuf (1828), Einaudi, 1971.

8) Per un approfondimento sul tema della dittatura del proletariato ci permettiamo di rinviare al nostro: "La dittatura del proletariato in Marx ed Engels", Trotskismo oggi, n. 14, 2019.

9) K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), ed. Laterza, 2016, cap. II, p. 36.

10) Il riferimento è al protagonista dello splendido romanzo di Stendhal, La certosa di Parma (1839), da poco disponibile in una nuova traduzione per i tipi di Einaudi.

11) J. Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere (2002), Intra Moenia, 2004.

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