Partito di Alternativa Comunista

Foibe: una storia che merita di essere conosciuta... prima che la riscrivano

Confine orientale: le foibe tra imperialismo e resistenza

di Antonino Marceca

Appena eletto alla presidenza del Friuli-Venezia Giulia, Illy si recò a Lubiana in Slovenia, a Venezia dal presidente del Veneto Galan, a Villaco presso il governatore della Carinzia Haider, in Istria dal presidente Jakovcic e infine in Croazia dal presidente Mesic e ogni volta propose ai rispettivi interlocutori la realizzazione dell'Euroregione. Un progetto che vede l'appoggio del presidente del Veneto Galan e il sostegno dei presidenti della Confindustria del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. Un quadro di relazioni istituzionali mirante al controllo imperialistico della regione orientale. Interessi strategici imperialistici verso l'oriente che per quanto riguarda l'Italia possiamo considerare storici.

Per limitarci al Novecento, con il Patto di Londra, siglato il 26 aprile 1915 tra Italia e Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia), si prevedeva, in caso di vittoria nella guerra imperialistica del 1914-1918, l'assegnazione all'Italia del Trentino, del Sud Tirolo, la Venezia-Giulia, la penisola dell'Istria, gran parte della Dalmazia e delle isole adriatiche. Conclusa la prima guerra mondiale, crollato l'Impero Asburgico, la conferenza di Parigi stabilisce la costituzione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Il nuovo assetto pone la necessità di definire i confini con l'Italia, mentre migliaia di sloveni si trovano sotto occupazione dell'esercito italiano ed aspirano a ricongiungersi al nuovo Stato jugoslavo. Gli sloveni per quanto riguarda l'Italia, non si facevano illusioni: i loro connazionali delle Valli del Natisone, passati sotto l'Italia nel 1866, avevano subito da allora un costante e sistematico processo di "snazionalizzazione". Il combinato disposto dell'occupazione militare e dell'iniziativa nazionalistica (impresa di D'Annunzio a Fiume) trovava riscontro nel Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 che assegna all'Italia nuovi territori: l'Istria, la Dalmazia, la città di Zara, le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa, infine nel 1927 la città di Fiume. La regione assume il nome di Venezia Giulia.

La borghesia slovena benché disponibile alla collaborazione con il governo italiano, a condizione di preservare la propria identità e ruolo sociale, trova nel governo di Roma, liberale prima e fascista poi, il fermo proposito di assimilare gli "alloglotti", come venivano chiamate le popolazioni slave. Trieste, avamposto colonialista verso l'oriente, diviene terreno fertile per lo sviluppo del fascismo: "di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava" afferma Mussolini percorrendo la Venezia Giulia nel settembre 1920 "non si deve perseguire la politica che dà lo zucchero, ma quella del bastone".

Nel 1921 la federazione fascista di Trieste è la maggiore d'Italia, nel maggio del 1920 vengono create le "squadre volontarie di difesa cittadina", bande armate fasciste, sotto la direzione di Giunta, che scatenano aggressioni contro la classe operaia delle industrie tessili, cantieristiche, minerarie e contro le popolazioni slovene e croate. Tutti i luoghi di aggregazione degli sloveni e dei croati vengono aggrediti e distrutti: società corali, società sportive, sale di lettura, circoli dopolavoristici, le scuole. Nel 1920 a Trieste è incendiato il Narodni Dom, sede delle associazioni culturali ed economiche slovene.

Il fascismo si identifica con l'italianità e conquista il consenso della borghesia liberalnazionale triestina. Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, la repressione acquista il timbro delle leggi dello Stato. Il regio decreto del 15 ottobre 1925 proibisce l'uso delle lingue diversa da quella italiana. La lingua slovena e serbo-croata viene rimossa da tutti i luoghi pubblici e dalle insegne, con il regio decreto del 7 aprile del 1927 viene imposta l'italianizzazione dei cognomi, vengono soppressi e confiscati i beni delle organizzazioni culturali, ricreative, economiche slovene e croate. La scuola è al centro della politica di "snazionalizzazione", gli insegnanti di lingua slovena vengono trasferiti e costretti a licenziarsi, la repressione investe anche i preti slavi in quanto "si ostinano a celebrare le funzioni religiose in lingua slovena", e in Italia "si prega in italiano".

Contro questa azione di feroce repressione, contro l'imperialismo coloniale italiano si organizza la resistenza, in particolare si formano due organizzazioni clandestine, la Tigr (dalle iniziali slovene di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka) e la Borba (lotta) che affermano la parola d'ordine dell'unione alla Jugoslavia. In particolare nella Tigr all'inizio degli anni '30 emerge la figura di Pinko Tomazic che pone l'obiettivo di una repubblica slovena inserita nel quadro di una confederazione di repubbliche sovietiche balcaniche.

Negli anni '28-'30 gli agricoltori slavi sono costretti a mettere all'asta le proprietà, acquisite da coloni italiani mediante l'Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie. La repressione negli anni '27-'43 condotta dal Tribunale Speciale fascista contro sloveni e croati è particolarmente feroce. La stessa cultura della foiba (1) viene utilizzata da nazionalisti e fascisti, in canzoni e in poesie nei testi scolastici, per intimorire con la minaccia di finire "in fondo nella foiba" le popolazioni slave.

Il 6 aprile 1941 l'Italia, assieme alle forze dell'Asse, sferra l'aggressione alla Jugoslavia, che viene smembrata; l'Albania era stata occupata nell'aprile 1939. Dalla spartizione della Jugoslavia l'Italia incorpora la Slovenia meridionale, il litorale Dalmata, Sebenico, Spalato, Ragusa, Cattaro, le isole e la regione della Carniola, costituendo la nuova Provincia di Lubiana e il Governatorato della Dalmazia; a Sud incorpora all'Albania la Macedonia meridionale e il Kosovo, il Montenegro diviene un protettorato. L'occupazione fu contrassegnata da particolare durezza: incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio italiani (202 complessivi, tra cui Arbe-Rab in Dalmazia e Gonars in Friuli) e tedeschi, eccidi di rappresaglia, rastrellamenti, fucilazioni ed impiccagioni.

Dopo l'invasione nazifascista a Lubiana il 27 aprile 1941 si costituisce l'Of (Osvobodilna Fronta: Fronte di Liberazione Sloveno), a cui aderiscono personalità indipendenti e gruppi di ispirazione cristiano-sociale, con un ruolo egemone del Partito comunista sloveno (2). L'Of inizia la resistenza armata con l'obiettivo dell'indipendenza nazionale e l'unificazione della Slovenia nel quadro della Jugoslavia federativa, organizza forze prevalentemente contadine e popolari. Le forze liberalconservatrici slovene, espressione della borghesia nazionale, restano in attesa della fine del conflitto o collaborano con l'occupante.

La risposta italiana è la repressione civile e militare: nell'aprile del 1942 a Trieste viene istituito l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza che si caratterizzerà per i rastrellamenti, le violenze, le torture. Alla vigilia dell'8 settembre 1943, nella sola provincia di Lubiana si conteranno 33.000 persone deportate, pari al 10% della popolazione, quasi 13.000 edifici distrutti, 9000 danneggiati, ed un numero di fucilati, caduti in combattimento e morti nei campi non quantificati, ma dell'ordine di alcune migliaia (circa 7000 nei campi italiani).

Dopo l'8 settembre 1943, crollate le strutture dello stato italiano, dissolto l'esercito regio, i comandanti in fuga alla ricerca di vie di salvezza, la Wehrmacht occupa i centri strategici della Venezia Giulia, le città portuali di Trieste, Pola, Fiume, l'area industriale di Monfalcone, Gorizia ma per carenza di forze trascura l'entroterra. Il vuoto di potere nella penisola istriana è presto riempito dall'insurrezione popolare e contadina, coinvolge la popolazione italiana dei centri costieri e quella slava dell'interno, presenta connotazioni di liberazione nazionale e lotta di classe, ad una fase spontanea con fenomeni di jacquerie segue l'assunzione del controllo politico-militare da parte del Novj (l'esercito di liberazione). Una liberazione assai fragile durata circa venti giorni, in alcune zone circa un mese.  

Tra l'11 e il 12 settembre 1943 le forze del Novj occupano Pisino, nel cuore dell'Istria, organizzandovi il Comando operativo. Nei villaggi le masse popolari attaccano i simboli e i rappresentanti dello stato colonizzatore: podestà e segretari comunali, fascisti, carabinieri, commercianti, esattori delle tasse; nelle campagne i coloni e i mezzadri attaccano i possidenti terrieri italiani; nelle imprese industriali, cantieristiche e minerari, in particolare nella zona di Albona, con una forte tradizione di lotte operaie e socialiste, stessa sorte investe dirigenti, impiegati e capisquadra. Mentre la maggior parte vengono arrestati e concentrati soprattutto a Pisino, in questo contesto alcune centinaia (300-500) di vittime della furia popolare vengono gettate nelle foibe istriane. La propaganda nazifascista utilizzerà il fenomeno delle foibe istriane per incitare all'odio antislavo, moltiplicando il numero e sottolineando la nazionalità italiana delle vittime.

Il primo ottobre 1943 con l'Operazione Nubifragio le forze armate tedesche rioccupano tutta l'Istria, il loro passaggio segna decimazione di massa, distruzioni, incendi, i morti sono migliaia. I territori riconquistati vengono uniti alle altre aree del confine nordorientale e organizzati nella "Operationszone Adriatsches Kusternland" (Zona Operazioni Litorale Adriatico) comprendente le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana, nelle quali l'autorità suprema è un commissario alle dipendenze di Hitler. L'Amministrazione tedesca emana una serie di disposizioni e ordinanze, nomina prefetti e podestà, assegna ad ogni amministrazione un consigliere tedesco. I giovani di leva vengono incorporati nella Wehrmacht o nella organizzazione tedesca del lavoro coatto Todt. Vengono pubblicati giornali e riviste in lingua tedesca, slovena e serbo-croata, viene quindi ridimensionata la politica di snazionalizzazione delle popolazioni slave. Il potere decisionale a tutti i livelli è accentrato in mani tedesche, dai tribunali al controllo poliziesco, quest'ultimo è gestito dal generale Odilo Lotario Globocinik, capo delle SS del Litorale, stimato da Himmler per l'attività svolta nei campi di sterminio in Polonia. A Trieste organizza nel rione industriale di San Sabba, in edifici già utilizzati per la pilatura del riso, un lager che funziona come campo di smistamento, concentramento e sterminio. A San Sabba trovano la morte migliaia di oppositori politici e combattenti partigiani sloveni e croati, italiani, renitenti alla leva, ebrei.

Per larga parte della comunità italiana della Venezia Giulia, la borghesia e larghi strati di piccola e media borghesia la creazione della Zona del Litorale Adriatico, la presenza della Wehrmacht è una garanzia contro la minaccia "slavo-comunista". A Trieste la borghesia industriale e finanziaria vede nella annessione al Reich il rilancio commerciale della città, porto meridionale del Reich. Nella Venezia Giulia si costituiscono corpi volontari di milizie fasciste che collaborano col comando tedesco: la Polizia annonaria, la Guardia Civica-Stadtshutz, la Milizia Difesa Territoriale, la X Mas, la Guardia di Finanza, inoltre collaborano con l'occupante anche forze slovene: Slovenski narodni varnostni zbor (corpo nazionale sloveno di sicurezza) detti domobranci e Slovensko domobranstvo (difesa territoriale Slovena).

All'interno della popolazione italiana della Venezia Giulia gli operai di Trieste, Monfalcone, Fiume e delle cittadine costiere istriane diedero origine a formazioni quali la Brigata Proletaria e Delavska Enotnost-Unità Operaia che collaborano con la resistenza jugoslava nella prospettiva della rivoluzione socialista, prospettiva che le organizzazioni egemoni del movimento operaio italiano (Pci e Psi) non sostengono provocando grosse contraddizioni tra quadri e militanti comunisti. Il Pci infatti partecipava attraverso il Cln al Fronte popolare con i partiti borghesi (Dc, Pd'a, Monarchici, Liberali), e a questa alleanza subordina l'indipendenza di classe.

In Jugoslavia il Pcj, pur aderendo alla politica dei Fronti popolari (3), in presenza di una borghesia nazionale legata al capitale straniero, tipica di un Paese semicoloniale, le cui forze politiche collaboravano con l'occupante o restano passive, è costretto dalla dialettica della rivoluzione a superare la fase democratico-borghese (unificazione ed indipendenza nazionale, riforma agraria) fino a liquidare una borghesia che queste esigenze non aveva risolto o risolto parzialmente.

Un intreccio di contraddizioni nazionali e di classe che si riversano nel movimento partigiano della Venezia Giulia, provocando a Trieste rotture nel Cln, qui le forze borghesi, liberali e cattolici, si oppongono per ragioni di classe alla rivoluzione jugoslava, tale avversione porterà, come nel caso delle Brigate Osoppo, alla collaborazione con forze fasciste in funzione antislava e anticomunista.

La situazione politico-militare costringe gli inglesi a limitare il controllo alla parte occidentale della regione, per l'importanza strategica delle comunicazioni verso Nord, in particolare Trieste e Gorizia, rinunciando all'ipotesi greca. L'offensiva finale jugoslava inizia il 20 marzo 1945 e sono i reparti del Novj ad arrivare il 1

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