Femminicidio: violenza di genere e sfruttamento di classe
Le colpe del capitale nella violenza sulle donne
di Laura Sguazzabia
I primi sei mesi del 2016 fanno registrare un bilancio drammatico delle vittime di femminicidio e il balletto dei numeri riportati dai media borghesi conferma che la situazione rimane allarmante. Eppure, la neo ministra alle Pari opportunità è intervenuta nel dibattito con una posizione ottimistica, parlando di diminuzione dei reati e di un'opportunità di interventi legata ai fondi previsti nel “pacchetto sicurezza” del 2013. Peccato che i fondi, oltre ad essere insufficienti, siano ancora bloccati e che molti centri anti-violenza che ne avrebbero dovuto beneficiare stiano chiudendo o stiano annaspando tra mille difficoltà.
La violenza di genere: un danno economico collaterale
Dell’esiguità
dei finanziamenti per gli interventi contro la violenza di genere e della poca
tempestività nell’erogazione, si sono occupate tra il 2013 e il 2014 due
interessanti ricerche scientifiche (“Quanto costa il silenzio” e “Rosa
shocking”) promosse dall’organizzazione non governativa di cooperazione allo
sviluppo Intervita Onlus che dal 1999 si occupa di donne, infanzia e comunità
locali in Italia, Asia, Africa e America. Queste due indagini che hanno
coinvolto economisti, sociologi, demografi, ricercatori statistici,
sondaggisti, hanno affrontato il tema della violenza di genere in Italia per la
prima volta in termini prevalentemente economici o, se vogliamo dire meglio,
capitalistici, riuscendo a dare un valore approssimativo per difetto ai costi
economici e sociali della violenza contro le donne in Italia. Ne emerge un
quadro agghiacciante: circa 17 miliardi tra costi sanitari (ricoveri al pronto
soccorso e cure successive) e psicologici, per farmaci, per l’ordine pubblico,
giudiziari e di spese legali, dei servizi sociali dei Comuni, dei Centri
anti-violenza, per la mancata produttività, rispetto ai 12 milioni stanziati
per interventi di prevenzione (gli stessi ancora da erogare). Nelle conclusioni
delle ricerche, preso atto della difformità dei dati, i membri del Comitato
scientifico invitano le autorità a farsi carico maggiormente e con tempestività
del problema, sebbene l’invito sia posto molto cautamente dato che le ricerche
si sono svolte con il patrocinio del governo.
Tuttavia,
nel sistema capitalistico questi 17 miliardi (che non quantificano ovviamente
le cicatrici psicologiche e morali delle vittime di violenza) rappresentano un danno
collaterale, una perdita ponderata ai fini di un guadagno maggiore. Si dovrebbe
provare a quantificare quanto guadagno si ottiene dal mantenimento della
differenza di genere e dalle maggiori oppressione e violenza cui le donne sono
soggette in questo sistema sia fuori sia dentro le mura domestiche. Per esempio,
andrebbe quantificato il guadagno che si origina dal ritiro dello Stato da
molti settori strettamente legati al lavoro di cura e dalla sostituzione che le
donne effettuano quotidianamente dei servizi pubblici per l’infanzia, dei
centri di aggregazione giovanile, dei servizi di assistenza domiciliare per le
persone non autosufficienti.
La differenza di genere è funzionale, la violenza contro le donne strutturale
In
generale, tuttavia, il guadagno maggiore che il capitalismo trae sta proprio
nel mantenimento (ed ora con la crisi economica nell’accentuazione) della
differenza di genere. Non c’è possibilità né volontà in questo sistema perché
il problema della parità uomo/donna si risolva, e dunque quello della violenza
sulle donne.
Questo
sistema non può e non vuole risolvere la questione di genere perché su queste
differenze si basa il controllo sociale di una classe su un’altra. Le
condizioni materiali di una società basata sul profitto e sullo sfruttamento
della maggioranza dell’umanità causano questa oppressione e questa violenza,
che nessuna ideologia ugualitaria, nessuna propaganda, nessun progetto solidale
potranno mai superare.
Gli
esseri umani non sono tutti uguali e, dunque, nemmeno, gli uomini e le donne lo
sono. Tuttavia, questa differenza, che di per sé non sarebbe un problema, viene
utilizzata per sottomettere o mettere in svantaggio le donne. La visione comune
e diffusa è che le donne sono nate per essere casalinghe, avere dei figli e
prendersi cura della famiglia, e non sono adatte per la produzione sociale e
politica; le donne sono “esseri inferiori”, destinate ad essere schiave della
casa, a guadagnare meno degli uomini e ad occupare i peggiori posti di lavoro,
a farsi carico delle faccende domestiche e ad essere proprietà privata dei
mariti e dei compagni; una simile impostazione ideologica finisce col
giustificare tutti i tipi di violenza domestica che porta all'omicidio delle
donne da parte dei loro compagni.
Le
donne ed i bambini sono le principali vittime. I casi di donne picchiate o violentate,
di bambini sottoposti ad abusi, aumentano con l’aumentare della crisi. E
aumentano anche i casi di aggressioni sessuali sul lavoro, che le donne non
denunciano per timore di perdere quella che molte volte è l’unica fonte di
reddito familiare.
Uniti per sconfiggere il capitalismo
Alla
domanda di un giornalista su da dove fosse necessario partire per intervenire
nella situazione attuale, la neo ministra Boschi ha risposto senza esitazione:
“dalla famiglia”. Inevitabile e al tempo stesso drammatico. Perché secondo la
visione borghese e capitalistica è importante che all’interno della famiglia si
riproducano le stesse tensioni ed oppressioni che i proletari nel loro insieme
sperimentano nello scontro di classe, senza tuttavia averne consapevolezza. Il
capitalismo utilizza ed esaspera la differenziazione dei ruoli per incrementare
lo sfruttamento e per rompere l’unità tra i lavoratori.
Per
questo motivo riteniamo che le organizzazioni della classe lavoratrice debbano
prendere consapevolezza di questo meccanismo e sottrarsene poiché
nell’assecondarlo si pongono dalla parte dei loro stessi oppressori. Quando un
lavoratore assume le rivendicazioni contro l’oppressione e la violenza contro
le donne, indebolisce l’obiettivo dei padroni di dividere per sfruttare. Ad
ogni diritto che viene strappato alle donne, viene commesso un sopruso in più
ai danni dei diritti di tutti i lavoratori. Per questo, le rivendicazioni volte
a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle donne devono essere
riprese da tutta la classe lavoratrice. È attraverso l'unità della classe
lavoratrice sulla base di una comune posizione di classe indipendente da
genere, razza od orientamento sessuale, e con la lotta per le mete comuni del
socialismo che si abbatte il pregiudizio. La lotta per il socialismo si basa
sul potere dei lavoratori – non maschi o femmine, ma tutti i lavoratori. In
questa lotta ogni lavoratore ha un ruolo fondamentale e una vittoria della
classe lavoratrice sarà impossibile senza la partecipazione alla lotta da parte
delle donne proletarie. Il sistema economico socialista rende impossibili le
basi materiali per l'oppressione di genere, e la lotta per instaurarlo
abbatterà i pregiudizi sessisti dimostrando nella prassi l'uguaglianza tra
uomini e donne.