Settimana corta: quello che i lavoratori devono sapere
di Diego Bossi
Un metodo efficace per spiegare bene il senso di questo articolo, come di tanti altri che abbiamo scritto su temi sindacali, è utilizzare la metafora del teatro, dove i lavoratori sono il pubblico in platea e governanti e padroni stanno sul palco a proporre il loro «spettacolo», se così vogliamo chiamarlo.
In scena in questi giorni sta andando per la maggiore lo spettacolo della «settimana corta»: Luxottica e Lamborghini pare siano — rimanendo in metafora — le compagnie teatrali impegnate sul palcoscenico.
Non è secondario descrivere lo sperticarsi generale in manifestazioni di approvazione, lo scoppiettio, quasi ininterrotto, del plauso tributato dalla stampa borghese. Manca, come sempre più spesso accade, qualcuno che si alzi dalla platea e vada a farsi un giro dietro le quinte; qualcuno che faccia le pulci ai padroni, che origli le loro losche trame, che scovi i sotterfugi atti alla buona riuscita dell’illusione; qualcuno, insomma, che sia consapevole che nella società capitalista, divisa in classi con interessi divergenti e inconciliabili, tutte le «concessioni» senza lotta sono, appunto, illusioni. E come tali vanno smascherate.
Partiamo dalla nostra rivendicazione
La riduzione dell’orario a parità di salario è una delle rivendicazioni più importanti che il movimento operaio ha storicamente, poiché, oltre ad aumentare il valore della forza lavoro (e con esso il potere d’acquisto!), favorisce la conciliazione dei tempi vita/lavoro, riduce gli infortuni, aumenta l’occupazione. Un meccanismo che funziona solo se attuato senza trucchi di prestigio, altrimenti i benefici per i lavoratori svaniscono o si riducono. Andiamo quindi a vedere se dietro a questi accordi celebrati trionfalmente vi sia qualche imbroglio.
Prima una premessa necessaria: a quale platea ci rivolgiamo?
È importante ricordare che accordi come quello di Luxottica, che avrebbe fatto da apripista introducendo la settimana corta, siano rivolti a una percentuale esigua di lavoratori: una piccola parte di quella parte già minoritaria di grandi imprese che possono permettersi questi esperimenti (perché di accordi sperimentali si tratta), e anche tra questi «Big progressivi» non tutti i reparti e i lavoratori saranno coinvolti. Questa premessa si rende necessaria per prendere bene le misure del fenomeno che, ad oggi, se rapportato all’universo del lavoro, va collocato in un contesto di micro sperimentazioni che tra l’altro interessano solo parzialmente la produzione diretta. Ad esempio diverrebbe complicato, dal punto di vista padronale, introdurre il concetto di settimana corta nelle fabbriche a ciclo continuo: dovrebbero intervenire sulla riduzione di giornate fuori turno calendarizzate (nelle turnazioni ove sono previste), oppure sull’incremento dei permessi retribuiti. Ed è improbabile che i capitalisti accettino di implementare misure simili a saldo zero.
Settimana corta: compressione o riduzione orario?
La terminologia in questo campo è molto importante: non è un caso che si parli di «settimana corta» e non di «riduzione di orario», poiché c’è una differenza tecnica tra «riduzione» e «compressione», entrambe annoverabili nel concetto di «settimana corta». Ma se nel primo caso c’è un effettivo taglio delle ore lavorative, nel secondo caso si tratta solo di una diversa ripartizione dell'orario di lavoro, tale da consentire al lavoratore un giorno di riposo o una riduzione parziale delle ore da svolgere in un determinato giorno, spalmando queste ultime nei restanti giorni della settimana. Chiaramente è bene che i lavoratori sappiano che in questo ultimo caso non godranno di alcun beneficio derivante dalla riduzione dell’orario, tutt’al più avranno una giornata in più di riposo pagandola al caro prezzo di dover affrontare giornate da 9 o più ore.
Chi paga i giorni di riduzione?
Rimanendo nel campo delle cosiddette riduzioni, è necessario analizzare e comprendere chi le sostiene, vale a dire a carico di chi sono queste riduzioni. L’accordo Luxottica, sperimentale e solo su alcuni reparti, prevede due opzioni: entrambe prevedono una compartecipazione dei lavoratori, significa che dei 20 giorni di famigerata riduzione, 5 giorni (la prima opzione) li devono mettere sul piatto i lavoratori attingendo dai loro permessi retribuiti, con la conseguenza che questi giorni non sono più fruibili liberamente, ma vengono calendarizzati, un disagio che in molti hanno fatto notare. E i restanti 15 giorni? Li mette l’azienda utilizzando in parte il welfare aziendale, quindi niente contributi previdenziali e possibilità di spesa limitata agli accordi welfare proposti dal padrone. E se uno vuole i soldi in busta paga? Niente paura, c’è la seconda opzione: altri 2 giorni di permessi retribuiti a carico del lavoratore. Alquanto bizzarra questa riduzione: è come offrire la cena a qualcuno pagando con il suo bancomat.
Assunzioni o stabilizzazioni?
Niente di nuovo nemmeno sul versante delle tanto sbandierate «assunzioni», che in molti casi altro non sono che stabilizzazioni di personale precario già in forza. Ovviamente un’assunzione a tempo indeterminato è sempre ben accolta, ma da un punto di vista di classe dobbiamo far notare che non c’è un reale aumento dell’occupazione e che comunque il «tempo indeterminato» nel 2024, dopo dodici anni di riforme peggiorative praticate dai governi borghesi di ogni colore, mentre le direzioni di Cgil, Cisl e Uil fischiettavano alzando gli occhi al cielo, più che una granitica certezza è una flebile speranza.
Il nodo della produttività
La questione della produttività rimane l’asse centrale su cui ruota la riduzione oraria: non c’è nessuno — e ribadiamo: nessuno! — che non abbia messo al centro la produttività come primo effetto della riduzione di orario. Vale a dire che se oggi un lavoratore produce 100 in 5 giorni lavorativi, domani dovrà produrre 100 in 4 giorni, perché lavorando meno avrà più energie per spingere sull’acceleratore della sua prestazione. Ma questo è un gioco a perdere che non può durare molto.
La produttività è un valore assoluto solo nella produzione capitalistica, finalizzata al profitto e all'accumulazione di capitale. Nel socialismo invece la produzione verrebbe pianificata sulla base del soddisfacimento sociale, mettendo al primo posto lavoratori, masse popolari, qualità delle merci, della vita e dell’ambiente.
Conclusioni
Per concludere questo breve articolo dove abbiamo cercato, in prima battuta, di affrontare il tema della settimana corta, che in queste settimane si è guadagnato la luce dei riflettori grazie alla stipula di qualche contratto integrativo, pensiamo sia utile mettere a fuoco alcune importanti domande che dovrebbero porsi i lavoratori, a partire proprio dagli attivisti sindacali e dalle avanguardie di lotta: 1) Alla riduzione di orario conseguiranno pretese di aumento della produttività? 2) Il giorno di lavoro in meno verrà preso dal monte ore di permessi retribuiti già esistenti? 3) Il pagamento della parte di lavoro ridotta sarà effettuato in busta paga o in welfare contrattuale? 4) Ci saranno delle perdite previdenziali? 5) Le assunzioni promesse sono reali o conferme di contratti a termine già esistenti.
In termini generali è bene che i lavoratori imparino sempre a diffidare degli «accordi» ottenuti senza un minuto di sciopero: se lo hanno firmato i padroni ci sarà un motivo!
Queste domande e queste riflessioni andrebbero sollevate, in primo luogo, dai dirigenti sindacali che firmano questi contratti risolvendo il conflitto di classe seduti al tavolo col padrone. Perché poi lo spettacolo finisce, cala il sipario, e i lavoratori, come spesso accade, si accorgono troppo tardi che il prezzo del biglietto era più salato di quanto credessero.