Partito di Alternativa Comunista

Contratti nazionali: perché i salari non crescono e i diritti si perdono?

Contratti nazionali: perché i salari non crescono e i diritti si perdono?

 

 

di Diego Bossi*

 

 

 

In questo articolo parleremo della contrattazione nazionale, quella che viene indicata, per intenderci, con l’acronimo Ccnl (Contratto collettivo nazionale di lavoro). Non ci occuperemo di uno specifico Ccnl, ma della logica concertativa e cogestionale tra Confindustria e le direzioni di Cgil, Cisl e Uil che scandisce la contrattazione: i lavoratori, per inciso, non solo sono esclusi da questo processo, ma ne sono vittime!
Quando usiamo l’espressione «direzioni di Cgil, Cisl e Uil» oppure «apparati» o «segreterie» vogliamo distinguere i dirigenti opportunisti dai lavoratori: i primi sono colpevoli di tradire i secondi. Per noi questa distinzione è un architrave del nostro intervento sindacale, poiché non vogliamo contrapporre tra loro i lavoratori di diverse sigle sindacali, ma unirli, indipendentemente dalla loro collocazione sindacale, contro i padroni e i sindacalisti burocrati al loro servizio.
Se osserviamo i rinnovi contrattuali prendendo come riferimento un arco temporale di circa 30 anni, diciamo dagli anni Novanta ai giorni nostri, si potrà vedere come gradualmente il conflitto è stato sostituito dalla trattativa. Mentre prima le lotte rafforzavano il potere contrattuale - infatti era pratica comune scioperare e organizzare manifestazioni proprio in concomitanza delle trattative - oggi questa tendenza si è addirittura invertita e le fasi di rinnovo contrattuale sono totalmente scandite dal silenzio e dalla pace sociale. In questo articolo non solo cercheremo di mettere a fuoco le dinamiche che connotano tutti i rinnovi contrattuali, ma andremo a vedere anche quei contenuti comuni a tutti i contratti collettivi che costituiscono la vera e propria impalcatura interconfederale degli accordi tra Confindustria e le direzioni di Cgil Cisl e Uil. Fatta questa premessa, per noi imprescindibile, iniziamo il nostro viaggio nei meccanismi deleteri che animano la contrattazione nazionale.

 

Il metodo: dalle piattaforme alle ipotesi d’accordo

L’assenza di democrazia e partecipazione da parte dei lavoratori fa da sfondo per tutto il processo della contrattazione collettiva. I lavoratori ricevono una piattaforma calata dall’alto, su cui non hanno nemmeno potuto proferire parola: in molti casi nemmeno viene presentata nelle assemblee, nonostante ci siano ore di assemblee retribuite.
Le piattaforme rivendicative dovrebbero essere, al contrario, costruite dai lavoratori: un percorso che parta dal basso con assemblee e tavoli tematici; invece sono testi sostanzialmente inemendabili che danno il via a qualche mese di trattative senza lotte, perché gli scioperi durante i tavoli con l’associazione padronale sono vietati alle organizzazioni firmatarie dei Ccnl e di vari accordi interconfederali.
Al termine di questo limbo di pace forzata, dove i lavoratori sono relegati in sala d’attesa ad aspettare notizie dai sindacalisti che escono dagli uffici, arriva la famigerata ipotesi d’accordo, come di consueto decimata rispetto alle già basse rivendicazioni iniziali. A quel punto delegati e funzionari sindacali vanno nelle assemblee, senza aver proclamato mezz’ora di sciopero, a spiegare che più di così non si poteva fare, che fuori il mondo è peggio, che in questa fase storica abbiamo ottenuto il massimo possibile e così via dicendo.
Le realtà più critiche, solitamente rappresentate dalle aziende più grandi, votano contro, ma puntualmente il loro voto contrario si schianta sul plebiscito dei «piccoli» non sindacalizzati, e il risultato finale della «votazione», se così vogliamo chiamarla (chi controlla la regolarità?) suggella il nuovo Ccnl. Un film che i lavoratori hanno visto e rivisto negli anni e da cui nasce una riflessione spontanea, genuina e arrabbiata: se i salari sono regolati dalla contrattazione collettiva e i salari italiani, unici nell’area Ocse, hanno perso potere d’acquisto rispetto al 1990, qualche domanda, i titolari esclusivi della contrattazione, dovrebbero porsela.

 

l’indice Ipca e la questione salariale

La questione salariale è centrale se parliamo di contratti nazionali. Il meccanismo di «adeguamento» dei salari al costo della vita altro non è che un meccanismo di impoverimento dei lavoratori, totalmente inefficace nel rispondere alla crescita inflattiva ma, come abbiamo visto negli anni in numerose vertenze, altrettanto fiscale ed efficiente nel richiedere la restituzione dei miseri aumenti concessi, qualora l’inflazione fosse di segno negativo.
Per prima cosa dobbiamo denunciare che già i dati Istat, basati sul famigerato paniere, restituiscono risultati non conformi ai reali aumenti dei costi di vita che i lavoratori devono sostenere quotidianamente per sopravvivere e mantenere dignitosamente la loro famiglia. Nonostante questo, i salari, nella contrattazione nazionale, vengono conformati all’indice Ipca (Indice dei prezzi armonizzati al consumo), che non computa i costi energetici, come se questi non fossero una voce determinante nel calcolo dei costi di vita.
In realtà siamo di fronte al tentativo di Confindustria e delle direzioni di Cgil, Cisl e Uil di trasformare il salario, così come l’intero parco contrattuale, da «oggetto della contesa», da conquistare col conflitto sociale animato da lotte e scioperi, a un mero importo da adeguare meccanicamente sulla base di un indice: una formula matematica vincente solo per i padroni.

 

Cogestire è meglio che lottare?

La contrattazione collettiva è farcita di istituti che non hanno nulla a che fare con gli interessi di classe dei lavoratori, veri e propri prodotti finanziari che permettono a chi li vende di lucrare sulle spalle delle masse proletarie.
Il welfare contrattuale si appresta a sostituire parti sempre più grandi dei premi di produzione e dei salari, un meccanismo infernale e deleterio, che offre servizi, compresa la sanità privata, permettendo ai padroni di risparmiare — loro! — sui contributi previdenziali dei lavoratori e i tributi. Il risultato è che i lavoratori si trovano in mano buoni spesa legati al loro status di lavoratore dipendente, pertanto divengono sempre più fidelizzati e ricattabili; mentre il welfare e la sanità pubblica e universale vengono privati di importanti risorse: un altro regalo che i governi borghesi hanno fatto ai padroni!
Coi fondi pensione vanno a mettere le mani nel ricco piatto dei Tfr che i lavoratori hanno accumulato in una vita di sacrifici, per metterli nelle fauci del mercato e dei fondi di investimento, così da «garantire», si spera, una pensione integrativa. Di fatto si tratta di una tassazione supplementare, a discapito di tutto o parte della liquidazione, per incrementare le pensioni sempre più misere e lontane.
I sindacati dovrebbero mettere in guardia i lavoratori da questi strumenti e unirsi per aprire una stagione di lotte generalizzata, per contrastare lo smantellamento della sanità pubblica e della previdenza sociale. Invece sono cogestori del welfare e della previdenza privata insieme ai padroni, tramite enti bilaterali, commissioni e osservatori paritetici; e si presentano davanti ai lavoratori col banchetto per fare il gioco delle tre carte.
Così molti sindacalisti di professione si sono trasformati in consulenti e promotori finanziari, erogatori di servizi, assistenti legali, snaturando il loro ruolo originale di rappresentanti dei lavoratori e dei loro interessi di classe. E gli interessi di classe dei lavoratori vanno oltre il loro orario e il loro luogo di lavoro: sanità, trasporti e istruzione pubblici sono conquiste delle lotte del movimento operaio e influiscono direttamente tutti i giorni sulla vita concreta della classe lavoratrice; per questo vanno difese anche nelle contrattazioni collettive, rifiutando in modo categorico la costituzione di qualsiasi istituto volto a favorire il privato a detrimento del pubblico.

 

La giungla contrattuale: dividi et impera!

La cosiddetta «giungla contrattuale», ovverosia la moltitudine sconfinata di Ccnl esistenti, divisi per categorie lavorative e dimensioni industriali, fa il gioco del padronato che ha tutto l’interesse a dividere, frazionare e compartimentare i lavoratori per indebolirli e rendere complesso il quadro normativo di riferimento. Al contrario sarebbe importante percorrere la direzione opposta, con l’intento di unire i lavoratori e semplificare le normative. Dove questo non sarà possibile con la semplificazione contrattuale serviranno organismi di fronte unico d’azione che uniscano i lavoratori di diverse categorie, collocazioni sindacali e territoriali.
La questione non è solo di frammentazione della classe, che sicuramente è un fattore ausiliario funzionale al controllo di Confindustria e delle segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil sull’intero campo delle contrattazioni collettive. Il punto centrale risiede nel fatto che la classe lavoratrice, oltre ad essere frammentata dalla geografia contrattuale, viene espropriata politicamente della sua capacità soggettiva (e possibilità) di intervenire direttamente nelle questioni che la riguardano.

 

Rubare la rappresentanza per favorire la concertazione

La questione della rappresentanza è stata affrontata diverse volte sul giornale e sul sito del nostro partito, pertanto non la riprenderemo nello specifico, ma qui è utile ribadire che a scegliere i loro rappresentanti devono essere i lavoratori, e devono poterlo fare liberi da qualsiasi compromesso vincolante imposto dal padrone. In altre parole i sindacati devono essere indipendenti dalla borghesia e dal suo Stato.
Espropriare i lavoratori della loro rappresentanza significa privarli dei più basilari diritti democratici, quindi consegnare la direzione delle loro organizzazioni a burocrati opportunisti che nulla hanno a che vedere con gli interessi di classe del proletariato. La lotta di classe, nella sua crudezza, è molto semplice: divide il campo di battaglia in due. Non esiste un terzo fronte, esistono più soggetti, ma questi devono schierarsi in uno dei due fronti contrapposti: o con la borghesia o col proletariato. Trotsky, in uno dei suoi più illuminanti testi, I sindacati nell’epoca di declino dell’imperialismo, ci insegna come in assenza di democrazia operaia sia impossibile per i rivoluzionari esercitare un’influenza politica sulle masse sindacalizzate, spiegando, con un passaggio magistrale, che qui vogliamo riportare testualmente, che «I sindacati al giorno d’oggi possono solo servire o, da un lato, come strumento ausiliario nelle mani del capitalismo imperialista per subordinare e disciplinare le masse operaie e sbarrare il passo alla rivoluzione, oppure – al contrario – i sindacati possono diventare uno strumento del movimento rivoluzionario del proletariato».

 

Il capitalismo offre solo miseria e distruzione ambientale

All’interno del sistema socio economico capitalista, caratterizzato dalla contrapposizione inconciliabile degli interessi di classe tra capitalisti e i lavoratori, è importante comprendere che la contrattazione nazionale non potrà mai essere gestita con trattative prive di conflitto sociale: i lavoratori dovranno conquistare gli aumenti salariali e i diritti con la lotta e gli scioperi, altrimenti ciò che uscirà dal cilindro della concertazione sarà solamente ciò che i padroni saranno disposti a concedere, che è sempre di gran lunga insufficiente a garantire un’esistenza dignitosa per le famiglie operaie. Questa dinamica di dominio della borghesia sul proletariato, nel capitalismo, verrà perennemente riprodotta, poiché si tratta di un elemento insito del sistema: una dinamica che potrà essere solo rallentata o parzialmente arrestata, per archi temporali limitati, solo lottando, tanto più se la lotta è generalizzata e passa dal livello sindacale al livello politico di una classe contro un’altra; ma non appena la lotta di classe entra in una fase di riflusso, i padroni si riprenderanno tutto il «concesso» sotto la spinta delle lotte. Ed è esattamente quello che è successo dalla seconda metà degli anni ‘80 ai giorni nostri, dove le conquiste dei gloriosi anni Settanta sono state fagocitate, boccone dopo boccone, dalla borghesia, tramite i suoi governi, i suoi partiti e — per dirla con Lenin, il cui centenario della morte celebriamo proprio quest’anno — i suoi agenti infiltrati nel movimento operaio, vale a dire proprio quelle direzioni sindacali opportuniste che gestiscono la contrattazione nazionale.

 

Dalla contrattazione collettiva al mondo migliore

I rinnovi dei Contratti nazionali, così come di tutti i contratti collettivi, devono tornare ad essere animati dalle lotte operaie. I lavoratori devono tornare ad essere i protagonisti con la lotta e gli scioperi prolungati, così come ci ha insegnato la storia del movimento operaio in Italia, dove nella stagione a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta sono state fatte le più importanti conquiste di diritti. Una stagione che piegò la borghesia e i suoi governi, obbligando i padroni a concedere qualcosa pur di non perdere tutto.
Al contempo è necessario che la classe lavoratrice sia consapevole che nel sistema capitalista nessuna conquista sarà mai definitiva, e andrà difesa sempre con la forza, poiché, non appena le condizioni sociali e politiche lo permetteranno, i capitalisti si riprenderanno tutto con gli interessi.
Per questo è importante che la lotta sindacale si unisca alla lotta politica contro il capitalismo: una lotta che parta dalle rivendicazioni pratiche e quotidiane e avanzi verso la costruzione di un vero sciopero generale e generalizzato che blocchi il Paese e scuota le fondamenta di questo sistema criminale in putrefazione, che, oltre a fruttare e affamare miliardi di persone nel mondo, sta avvelenando il clima e i territori, condannando l’intera umanità a un’estinzione sempre più certa e inevitabile.
Lottare per un programma di classe, che rimetta al centro la collettività che produce e non la minoranza di capitalisti che si arricchisce sfruttandola.

_ Abolizione di tutti i periodi di tregua sindacale e di tutti gli accordi e le leggi antisciopero.

_ Abolizione dell’indice Ipca e costituzione di un meccanismo di reale adeguamento dei salari in base agli aumenti dei costi della vita.

_ No a qualsiasi forma di welfare contrattuale: aumenti salariali e in busta paga col pagamento di tributi e contributi.

_ Abolizione di tutte le forme di previdenza e assistenza integrativa: giù le mani dai Tfr dei lavoratori!

_ Sanità pubblica, gratuita e di qualità per tutti.

_ Pensioni dignitose e dopo 30 anni di lavoro e massimo 60 anni di anzianità anagrafica.

_ Rappresentanze sindacali libere per tutti i lavoratori e tutte le organizzazioni, compresi comitati di fabbrica e collettivi: siano i lavoratori a decidere come e da chi farsi rappresentare!

_ Elezioni libere per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.

_ Abolizione del sistema degli appalti e subappalti: internalizzazione di tutti i settori della filiera produttiva esternalizzati.

_ Abolizione di tutti i contratti precari e di tutte le forme di precariato.

_ Ripristino dell’art. 18 con formula di reintegro piena estesa alle imprese con meno di 15 dipendenti.

_ Aumento salariale immediato di almeno 500 euro per recuperare 35 anni di potere d’acquisto perduto.

_ Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario fino all’assunzione di tutti i disoccupati.

_ Nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori di tutte le banche e le grandi industrie, a partire da quelle che delocalizzano e chiudono.

 

*Operaio Pirelli, responsabile sindacale Pdac

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